Lo scenario di riferimento
Di cosa ha bisogno la scuola del XXI secolo? Di infrastrutture. Certamente. Di formazione continua. Naturale. Di saper riflettere sul cambiamento che i nuovi media stanno producendo in noi stessi prima ancora che negli studenti. Ovvio. Di essere in grado di gestire il cambiamento. Ecco, questo credo sia il punto cruciale: saper gestire il cambiamento. Perché è indubbio, oltre che innegabile, che un cambiamento epocale stia attraversando non solo e non tanto i banchi di scuola, ma il modo stesso di apprendere da parte delle cosiddette nuove generazioni, oltre che naturalmente di noi docenti. Saper gestire il cambiamento dunque. Ma cosa vuol dire nel dettaglio? Difficile chiarirlo in breve. La mutazione in corso del resto è di così vaste proporzioni che contempla ricadute anche al di fuori del solo ambito didattico e formativo. Si possono tuttavia accennare delle linee di riflessione.
Essere padroni degli strumenti di lavoro
Gestire il cambiamento vuol dire innanzi tutto essere padroni dei mezzi che usiamo. Ad una prima riflessione questo dato appare scontato, ma non lo è. Ad oggi molti docenti utilizzano le “nuove tecnologie” (poniamo per non problematico questo sintagma, che tuttavia richiederebbe di essere se non ridiscusso quantomeno aggiornato), ma possono sentirsene “padroni”? In altri termini: possiamo affermare con certezza di conoscere, ad esempio, la logica basilare di un motore di ricerca? O possiamo essere fino in fondo sicuri delle fonti che spesso reperiamo in rete? O forse la “velocità” spinge per primi noi docenti a sacrificare la qualità della verifica delle fonti? Nella stragrande maggioranza di casi un docente oggi trentenne si è formato, per lo più, su un paradigma completamente diverso da quello atomico e puntiforme della rete. Ha piuttosto fondato la sua formazione sul rassicurante sistema lineare del libro. Quindi possiamo provvisoriamente concludere che la formazione di quel docente, ottima o mediocre che sia stata, si sia mossa su binari differenti da quelli in cui andrà ad inserirsi la formazione che egli in classe cercherà di impartire ai suoi allievi. Questo non è un dato da sottovalutare. Ci si può chiedere a questo punto in che modo gli insegnanti abbiano affiancato alla loro personale formazione universitaria, le competenze per una didattica che oggi sempre più spesso prende la definizione di “multimediale” o “2.0”. Le risposte possono essere varie; talora mediante corsi di formazione, non sempre organizzati dal Miur; più spesso attraverso una autoformazione senza dubbio meritoria ma inevitabilmente occasionale, spesso sporadica, in qualche modo disorganica. Del resto la “velocità” dell’avvicendamento dei nuovi media ha imposto un ritmo assolutamente serrato a chiunque volesse tenersi anche solo in parte aggiornato sulle nuove frontiere della didattica.
E abbiamo parlato sinora di “media”, “mezzi”, “tecnologie”. Ma a monte ci si può chiedere: su quale nuova pedagogia è stato formato il corpo docente in seno all’utilizzo dei nuovi strumenti didattici? O, ad essere più radicali, c’è stata una formazione o una visione pedagogica a monte dell’entusiasmo prodotto dall’introduzione della lim et similia? Perché è inutile negare che lo strumento viene inevitabilmente dopo una qualunque pedagogia. Ci insegna il metodo galileiano che ad una ipotesi debba far seguito una sperimentazione, che ne costituisca in qualche modo conferma o smentita. Nel nostro caso è stato davvero così? O piuttosto è avvenuta una sperimentazione priva di una visione generale del problema? Senza quindi pedagogia? Io credo sia avvenuto questo secondo scenario. Una provvisoria conclusione potrebbe quindi essere questa: i docenti che oggi utilizzano le nuove tecnologie si sono formati per lo più da soli, hanno sperimentato a loro spese senza, in genere, una visione di insieme e di “lunga durata”, una sorta di coraggiosa ma rischiosa navigazione a vista, piccolo cabotaggio insomma. Questo, si badi bene, non toglie meriti a chiunque si sia avventurato nel mare magno della sperimentazione didattica (anzi, semmai ne aggiunge), ma racconta di uno scenario ancora troppo poco coerente e lungimirante. In questo orizzonte parlo di “essere padroni” degli strumenti del proprio lavoro. Se vogliamo riflettere (non dico nemmeno “gestire”) sul cambiamento, è necessario conoscere nel dettaglio il funzionamento di almeno un numero minimo di “nuovi” strumenti di lavoro. In altre parole questo significa per i docenti formazione continua e di alto livello.
Riflettere sul cambiamento in atto in noi stessi
I nuovi strumenti di lavoro, che per comodità possiamo sintetizzare in “internet”, “social network”, “(web) app didattiche”, stanno producendo cambiamenti irreversibili in noi. Persino in chi ne rifiuti l’uso, anche per legittimi motivi, il cambiamento è in atto, in modo più o meno passivo, ma è in atto. Siamo in grado di riflettere su questi cambiamenti? Non sempre. Parlando della mia esperienza, devo confessare che pur usando sin dagli anni universitari e post universitari (1997-2006) le “nuove tecnologie”, tanto per la ricerca quanto per la produzione di contenuti, ho evidente imbarazzo e difficoltà nell’isolare gli aspetti veramente specifici e significativi che essi hanno prodotto nei miei risultati. Questo non solo per la nota difficoltà di scorgere il senso dell’evento durante l’evento medesimo, quanto per la pervasività che ormai da anni tali media manifestano nella mia (nostra?) vita, professionale e non. In altre parole non so facilmente immaginare uno scenario parallelo in cui tali strumenti, la rete ad esempio, non siano presenti ed operanti. Quali le radici di questo impaccio? Da un lato forse una colpevole pigrizia; a tutti, almeno a partire dal nuovo secolo, era evidente la portata del cambiamento, non tutti però si sono dati il pensiero di indagare nel profondo le prospettive e le minacce di un futuro ormai prossimo. Non si tratta qui di evocare uno scontro, ormai obiettivamente grottesco, tra “apocalittici” e “integrati”, a parer mio infatti l’ “apocalisse è ora” e tutti o quasi siamo, in qualche maniera, “integrati”, sicchè la ben nota distinzione oggi si è forse confusa se non dissolta. Si tratta piuttosto di chiedersi quante occasioni abbiamo cercato, tra colleghi e non, per riflettere sul cambiamento in noi, sul modo di intendere il nostro lavoro, sulle dinamiche che si sarebbero sviluppate con i nostri studenti, su ciò che chiamiamo “cultura” e “formazione”. Abbiamo cercato queste occasioni di confronto? Oppure abbiamo in una certa misura atteso il cambiamento senza volerlo (e quindi saperlo) dirigere? La domanda resta aperta. Senza dubbio se non siamo stati noi docenti ad indirizzare il cambiamento, qualcuno è stato. E questa certezza deve farci venire fecondi sospetti sul nostro ruolo e nostro peso nel panorama odierno delle cosiddette nuove tecnologie didattiche.
Riflettere sul cambiamento in atto nelle nuove generazioni
La riflessione sul cambiamento in atto nei nostri studenti, in maniera più strutturata o più occasionale, è stata certamente argomento di molte nostre discussioni, con colleghi e non. Credo che nessun docente, negli ultimi dieci anni almeno, si sia rifiutato di formulare un giudizio sulle nuove “formae mentis” degli adolescenti odierni. Quale sia stata la conclusione qui poco importa. A me interessa rilevare che ci siamo dati spesso pensiero di giudicare un evidente cambiamento altrui senza essere sempre ben coscienti del cambiamento in atto in noi. I motivi di questa “estroflessione” sono piuttosto semplici da immaginare e per altro ognuno di noi avrà avuto le sue buone motivazioni al riguardo. Quello che mi preme rilevare è una analisi di contesto più ampia; non siamo sempre padroni dei mezzi tecnologici che usiamo, non sempre siamo coscienti del poderoso cambiamento in atto nelle nostre vite, relazioni, professioni, pur tuttavia ci sentiamo in qualche maniera autorizzati ad esprimere giudizi sulle mutazioni delle nuove generazioni. Si potrebbe obiettare, con buoni argomenti, che l’esperienza di molti di noi, maturata in tanti anni di insegnamento, ci dia in un certo senso la licenza per la formulazione di certi giudizi; io credo che l’esperienza tuttavia da sola non basti a comprendere i fenomeni, specie quelli di grande rottura col passato. Essa ha un ruolo di grande utilità, ma deve essere sempre complementare ad un nuovo sguardo sul fenomeno, sguardo che a volte l’esperienza pregressa, al posto che focalizzare, ottenebra.
Gestire in cambiamento
Ed arriviamo finalmente al punto: gestire il cambiamento. Come possono oggi i docenti gestire il cambiamento in atto nella scuola? Dalle riflessioni precedenti emergono alcuni spunti di riflessione, in sintesi: essere padroni degli strumenti quotidianamente in uso, essere coscienti del cambiamento in atto in noi, essere preparati a vedere con occhi nuovi le “formae mentis” degli adolescenti di oggi. Questo però non basta. Occorre infatti affiancare al momento della analisi, cui fanno metodologicamente riferimento i punti precedenti, quello della prassi, della proposta operativa. Solo attraverso una seria analisi, a mio avviso, si può percorrere una prassi sensata, ragionata ed efficace. Ed infine, dialetticamente parlando, al termine del gioco costante di analisi e prassi, si può giungere ad una sintesi provvisoria, che possa dare qualche risposta provvisoria ma fondata, utile per un tempo breve, a seguito del quale è opportuno che il meccanismo riparta, ammesso che si sia mai fermato. Tutto questo tenendo a mente un aspetto su cui credo si possa concordare: se non saranno i docenti ad indirizzare e moderare il cambiamento, saranno altri attori a farlo, magari di natura commerciale e/o politica.
Il docente come “designer didattico”
In questo scenario io situo il “Design Didattico”. Con tale espressione intendo, con leggere varianti, ciò che il mondo anglosassone chiama “Instructional Design”. Il docente oggi a mio avviso deve o dovrebbe essere un abile “designer didattico”. Tornerò a breve su questo tema approfondendolo come si conviene. Qui interessa dare qualche coordinata di riferimento, utile per stimolare la riflessione e per incardinare la discussione. In particolare il “designer didattico” deve essere in grado di: costruire percorsi ad hoc, attuare metodologie didattiche attive, valorizzare la valutazione autentica. Vediamo più in dettaglio.
Le competenze e le caratteristiche di un docente “designer didattico”
- Il designer didattico è il docente in grado di costruire percorsi, multimediali e non, che siano diversi in base agli obiettivi e, possibilmente, alle esigenze dei singoli/gruppi studenti; è in grado inoltre di valutare di volta in volta l’opportunità di utilizzare strumenti didattici tradizionali oppure multimediali, nella convinzione che la tecnologia in sé non sia né la panacea né la soluzione alle nuove sfide didattiche;
- Il designer didattico sa reperire online e condividere gli strumenti opportuni per costruire percorsi di didattica attiva ed esperienziale, con particolare riferimento alla metodologia dello storytelling (digital e non), del problem solving, della content curation e della peer to peer education;
- Il designer didattico progetta ed attua percorsi formativi che prevedano sempre una valutazione autentica a fine percorso (o talora anche in itinere) il più possibile condivisa e discussa con gli allievi.
Il focus sul “design”
Queste, a grandi linee, le caratteristiche di un docente “designer didattico”. Ma perché tanta attenzione al “design”? I motivi sono molteplici. Innanzi tutto oggi grazie alle risorse presenti in rete i docenti devono sempre meno occuparsi della creazione e sviluppo di un ambiente di apprendimento (data la evidente qualità dei learning environments disponibili anche gratuitamente) e sempre più dell’aspetto didattico e formativo in sé, vale a dire alla progettazione delle attività (e non dell’ambiente) di apprendimento. Alcuni casi molto significativi sono, ad esempio, i siti: Prezi o Powntoon o anche il più semplice ThingLink (ma potremmo citarne decine di altri altrettanto ben curati), che offrono ottimi spunti didattici su vari versanti.
In secondo luogo oggi le applicazioni didattiche (tanto web based quanto per smartphone e tablet) sono spesso estremamente specifiche e legate ad una particolare competenza (si pensi, ad esempio, al sito Project Noah per lo studio e la classificazioni di animali e piante), è quindi compito del docente conoscere a fondo le potenzialità di tali ambienti di lavoro ed utilizzarli per specifiche competenze.
Inoltre possiamo affermare che molto spesso gli ambienti di lavoro online sono capaci di stimolare aspetti che la didattica tradizionale con difficoltà percorre e sviluppa. Pensiamo ad esempio alla “content curation” ossia la “cura dei contenuti”; oggi con questa espressione, che per altro non nasce in ambito scolastico ma giornalistico in senso ampio, si intende la capacità di reperire e selezionare (non sempre quindi “produrre”) dei contenuti inerenti un tema specifico. In apparenza semplice, la content curation richiede da un lato una non banale conoscenza dei motori di ricerca, dei social network, del modo in cui le notizie si propagano in rete e dall’altro presuppone la padronanza di ambienti online capaci di strutturare in modo ordinato e coerente le notizie reperite. In tal senso fanno scuola siti come Storify, Flipboard e Scoop. La didattica che non si avvale di strumenti multimediali, ed in particolar modo “digitali”, può senza dubbio mettere in atto strategie di “content curation”, ma inevitabilmente incontrerà maggiori difficoltà, se non altro sulla logistica e sulla tempistica.
Infine una riflessione sulle metodologie collaborative; grazie allo sviluppo e alla diffusione dei social network, sempre più siti legati alla formazione online (non quindi solo connessi alla didattica in senso stretto) prevedono strategie di studio e lavoro collaborative. Inutile dire che il “cooperative learning”, specie nella scuola secondaria di secondo grado, non è così frequentato e praticato dai docenti, se non in modo per lo più episodico, naturalmente parlando in senso generale. Questo aspetto è forse la diretta conseguenza di una scarsa collaborazione anche tra i docenti medesimi (specie della scuola secondaria di secondo grado), spesso restii a condividere e a programmare insieme in modo multidisciplinare e interdisciplinare. Quindi per il designer didattico l’utilizzo di strumenti collaborativi online è un modo per introdurre, in modo crescente, esperienze che si avvalgono della cooperazione degli e tra gli studenti.
Il “designer didattico” e la strumentazione hardware
In questo panorama non abbiamo volutamente fatto riferimento agli strumenti hardware che sempre più spesso popolano le nostre classi, parliamo di lim, notebook, tablet e, ove possibile, smartphone. Questo aspetto non è secondario; progettare una attività mediante l’uso del tablet richiede prerequisiti, obiettivi e attività in genere piuttosto diversi rispetto ad una simile attività svolta tramite notebook o lim. In ogni caso tale aspetto è stato messo in secondo piano poiché il focus non deve essere mai lo strumento quanto l’obiettivo didattico che si vuole ottenere. Chiariti gli obiettivi, la scelta degli opportuni devices risulterà senza dubbio più agevole, anche se mai scontata.
L’unico aspetto infrastrutturale che ci sentiamo di presuppore è la connessione ad internet, possibilmente con banda larga. Nonostante gli sforzi profusi da numerosi dirigenti nel dotare le scuole di strumentazioni utili anche in modalità offline (si pensi alla lim e ai computer fissi e portatili), è probabilmente innegabile che una connessione ad internet rappresenti un valore aggiunto cui è difficile rinunciare. Non parliamo qui di banda ultra larga (che tuttavia consente ulteriori scenari didattici impensabili con una connessione standard), ma di una connessione alla rete stabile e diffusa, sia cablata che wireless.
In definitiva per il docente di oggi è sempre più importante saper progettare e “disegnare” attività didattiche che possano rapidamente introdurre nella scuola italiana non solo le nuove tecnologie ma anche (finalmente!) le nuove metodologie.
In questo sito, e più in generale nell’ecosistema “Design Didattico” (composto dai noti social network ma anche da siti con rilevanza e ricadute didattiche come Pinterest, Slideshare, Scoop, Storify) ci occuperemo di riflettere su come progettare attività di formazione e su come materialmente organizzarle, tramite articoli di riflessione, esperienze dirette, studi di caso e video tutorial.
Emiliano Onori
Docente e Formatore
– facebook.com/DesignDidattico